In Malacarne, romanzo d’esordio di Giosuè Calaciura, la mafia diventa un’acrobazia, un quadro di stucchi e perline, una messa in scena sanguinante e aberrante che, spesso, non è altro che lo sfondo della nostra «normalità» italiana.
Un assassino e un giudice. Una città in bilico. È il palcoscenico dei tradimenti e dei regolamenti di conti mafiosi, esecuzioni, stragi. Sembra di riconoscere profili noti, le cronache dure dell’attualità, la memoria offesa di Cosa Nostra. Ma non è un romanzo sulla mafia. È il teatro della realtà siciliana alla maniera di Vittorini, crudelissima come le favole, tra vicoli e mercati, carceri e tribunali, fantasmi, morti risuscitati e vivi in attesa di sepoltura, pentiti che confessano (o si confessano) con un linguaggio gonfio e visionario, con la forza evocatrice e arcaica dei simboli e dei miti, l’ovvietà della cronaca, le suggestioni e i prodigi della fantascienza.
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