Una prostituta trentenne esercita il suo mestiere con ferrea disciplina e finanche un pizzico d’orgoglio, lavorando alacremente alla propria crescita professionale per tenersi stretta la sua fetta di mercato. In questo ramo però si fa presto a invecchiare e allora diventa fondamentale «non puzzare e tenere d’occhio il peso». Teatro delle sue gesta è un trilocale in plastica – «quello che probabilmente qualcuno chiamerebbe bordello è per me un nido umano di calore pieno di angolini ricchi di sorprese nascoste» – e il catalogo è vario: triangoli, incontri a due o di gruppo o ancora numeri acrobatici che richiedono appositi attrezzi e travestimenti adeguati. Come quando deve farsi le trecce e col pennarello dipingersi le lentiggini sul naso per soddisfare un cliente che ama le bambine, ma teme la legge. Ogni prestazione contribuisce a rimpinguare la carta di credito di questa valente imprenditrice del proprio corpo, concedendole l’inesauribile piacere di imperversare senza freni in un asettico centro commerciale, dove immaginare esilaranti soggetti per improbabili serial televisivi, nonché trame di incontri sessuali non ancora avvenuti, irrealizzabili o da realizzare.
Tutt’intorno un mondo digitalizzato, fatto di media, di réclame e di luci artificiali, dove l’essere umano si vende, guadagna, ma non sarà mai felice. Con grazia e raffinata ironia, Petra Hůlová tesse un godibilissimo monologo, in bilico tra pornografia e commedia semiseria, che trabocca di ingegnose trovate linguistiche, ritraendo un mondo cupo e impotente – forse una visione del futuro – in cui uomini e donne sono ridotti ai loro desideri e pulsioni. Non c’è moralismo né sentimentalismo, solo il bisogno di scavare nella psicologia dei suoi personaggi per portare alla luce i sentimenti più nascosti, tanto risibili quanto tragici nella loro verità.